lunedì 18 gennaio 2021

Il lungo cammino verso l'elaborazione della rabbia...


Quante volte ci è capitato di provare a discutere con nostro figlio per spiegargli che se aveva aggredito un compagno di classe non poteva essere tutta colpa dell'altro.

Quante volte abbiamo cercato di convincerlo che se l'insegnante gli aveva dato per l'ennesima volta una nota non poteva essere sempre e sistematicamente colpa del compagno di banco che tendeva a distrarlo..

E d'altro canto quante altre volte ci siano sentiti non capiti e ulteriormente arrabbiati quando, cercando di spiegare la nostra posizione contro il nostro capo ad un nostro amico, lui ha cercato di farci vedere quale potesse essere la nostra responsabilità nel trovarci in quella situazione?

In queste e tante altre situazioni della nostra quotidianità potremmo dire che in noi o in nostro figlio sta prevalendo l'esternalizzazione, ovvero la tendenza a  " dare la colpa all'altro" rendendoci difficile la possibilità di considerare il nostro contributo alla storia.

Ma vediamo di comprendere meglio ciò di cui stiamo parlando.
Potremmo immaginarci la capacità di elaborare (e quindi vivere pienamente e consapevolmente) la nostra rabbia come un percorso a più tappe. Si tratta di tappe evolutive nel senso che man mano che si cresce si è ( o si dovrebbe essere) sempre più in grado di accedere a livelli più elevati di elaborazione, ma anche da adulti a seconda dell ' intensità o della profondità dell' emozione provata o della condizione psicologica personale, possiamo non riuscire ad accedere ai livelli più elevati di elaborazione della rabbia. Vediamo nello specifico quali sono questi livelli di mentalizzazione, così viene chiamata questa capacità di elaborazione dell' emozione.

Ad un primo e più primitivo livello l' emozione rabbia non può nemmeno essere pensata: viene solo agita. E' come se venisse semplicemente scaricata una tensione interna attraverso un'azione esplosiva. Dare un calcio ad un mobile, rompere una tazza, lanciare qualcosa sono esempi di questo primitivo livello. Già a questo punto riconosciamo comportamenti tipici dei bambini arrabbiati, ma a volte anche degli adulti.

Al secondo step abbiamo l'impulso modulato: non più l'azione non pensata, ma un'immagine, un pensiero di ciò che vorremmo fare, ma non stiamo facendo. E' il classico: "Gli avrei dato un bel pugno". L'immagine emerge dalla nostra mente in modo automatico, ma non facciamo quello che ci suggerisce. Vedete che il pensiero è venuto in nostro soccorso, non siamo più solo azione. 
Quando i bambini nel parlare della propria rabbia ci raccontano delle cose terribili che avrebbero voluto o vorrebbero fare dobbiamo considerare che stanno compiendo un passo importante nella mentalizzazione della rabbia. Non dobbiamo legittimare azioni violente, ma accompagnare nell'elaborazione consapevoli che il primo step lo hanno già superato, è la strada giusta. 

Frasi come: "Capisco che tu sia molto molto arrabbiato, anzi infuriato, e quando stiamo così la nostra mente ci fa pensare a queste cose, ma possiamo scegliere di non farle. Vedi, la tua mente ti sta dicendo cosa faresti senza riflettere, cosa che invece stai facendo!" possono aiutare questo accompagnamento.

Il terzo step è l'esternalizzazione, ciò di cui parlavamo all'inizio, "E' tutta colpa sua" è la frase per eccellenza. Anche in questo caso consideriamo che siamo ad un punto intermedio dell'elaborazione e a volte con i bambini ci dobbiamo accontentare di questo. Se cerchiamo di convincerli che non è così ci troveremo facilmente in una ramanzina con pochi effetti sulla comprensione del bambino della situazione. Più utile allora un accompagnamento verso lo step successivo l' appropriazione: facciamo sì che esprima chiaramente come si sente, perchè è così arrabbiato, quale senso di ingiustizia sente al suo interno, quali altre emozioni ci sono oltre alla rabbia. Questo ovviamente non significa che non ci debbano essere conseguenze al suo comportamento nel caso abbia commesso  un danno  o fatto male agli altri.

Solo all'ultimo livello, quello più complesso, non solo saremo in grado di riconoscere la nostra parte in ciò che è successo, ma riusciremo anche a renderci conto di come filtriamo l'interpretazione degli eventi grazie alla rabbia, che significato ha quella rabbia per noi. Allora potremo dirci: "So che sono arrabbiato e quindi tendo ad interpretare le azioni degli altri come minacciose e tendo a non fidarmi." Oppure: "So che quando non mi sento ascoltato tendo ad arrabbiarmi in modo eccessivo e chiudermi e questo non mi consente di avere una normale discussione".

Come possiamo vedere si tratta di un livello complesso al quale non arriviamo in tutte le circostanze. Sicuramente un cervello arrabbiato non riesce nel momento di maggiore attivazione ad attivare questo livello. Per questo nella rabbia, come nelle altre emozioni molto attivanti, è importante darsi il tempo di "raffreddare" e affrontare successivamente la situazione. Questo consente altre possibilità interpretative e altre modalità di gestione dei problemi.

Darsi e dare il tempo di "raffreddare" significa anche sapere quando non è il caso di incalzare l'altro con interrogatori o spiegazioni del proprio punto di vista. Anche se lo scopo non è quello di litigare la discussione verbale spesso aumenta la tensione di un cervello arrabbiato. Ecco perchè i bambini arrabbiati necessitano di adulti che accolgano prima di impartire insegnamenti. Da questo accoglimento possono partire per questo percorso a tappe.


mercoledì 6 gennaio 2021

SOUL: COSA SIGNIFICA "ESSERE NELLA BOLLA"? E' DAVVERO L'UNICO MODO PER ESSERE FELICI?


 Soul è l'ultimo capolavoro Disney, quest'anno uscito in esclusiva solo su Disney plus vista la chiusura dei cinema.

Ci sono molti spunti degni di nota in questo film, ma ciò di cui vorrei parlare è la cosiddetta scintilla che il protagonista Joe Gardner prova suonando il pianoforte. La stessa scintilla che 22, un'anima non ancora venuta al mondo, non riesce proprio trovare..

Guardando il film e osservando come Joe si perda nella sua musica mentre suona, raggiungendo uno stato di estasi in cui corpo ed anima si uniscono, mi è venuta in mente la Flow Theory che avevo studiato anni fa all'università, vediamo di cosa si tratta.

Csikszentmihalyi (nome impegnativo, difficile da dimenticare), nell'ormai lontano 1975 ha incominciato a teorizzare il concetto di flow, ovvero quello stato di completa immersione nel compito in cui si perde il senso del tempo, ci si sente in completo controllo, si è tutt'uno con il contesto ( ad esempio un nuotatore che all'apice della prestazione si sente tutt'uno con l'acqua, con il suo movimento), ci si sente intrinsecamente motivati nell'attività.

Pensiamo all'artista che preso dalla realizzazione del suo quadro continua la sua opera completamente immerso, pensiamo allo sportivo che si cimenta in una sfida impegnativa, ma che si sente in totale armonia con ciò che sta facendo.  Lo stato di flow è un'esperienza estremamente gratificante che ha delle caratteristiche ben precise (bilanciamento tra sfida e abilità: senso che l’individuo si sta impegnando in qualcosa di appropriato per le proprie capacità; fusione tra azione e consapevolezza; senso di controllo, sia delle proprie azioni, sia delle conseguenze di esse; obiettivi prossimali chiari e feedback immediato che permettono lo svolgersi continuo del processo, momento per momento; attenzione e concentrazione totale sul compito; distorsione della normale percezione temporale, esperienza autotelica ovvero gratificante in se stessa da Nakamura e Csikszentmihalyi, 2002), la cosa che più colpisce è la "perdita dello stato di autocoscienza ordinario". L'attore è così assorbito nel compito che non si percepisce più in modo egocentrato, ma è appunto un tuttuno con l'attività. Nel film la bolla viene spiegata con un accezione spirituale, chi la sperimenta si ritrova in un altro mondo.

La teoria del flow ha trovato applicazione in campo lavorativo, sportivo e motivazionale: è evidente che ritrovandosi nel flow le persone diventano estremamente gratificate, creative e produttive.

Interessante anche l'applicazione della teoria del flow nel campo del GAME DESIGN.

I vedeogiochi più avvincenti sono studiati per far sperimentare al giocatore l'esperienza del flow: il giocatore deve sentirsi bravo, efficace e competente nell' affrontare sfide sufficientemente difficili. Sperimentando questo egli può immergersi completamente e muoversi in uno stato ottimale di gratificazione. In pratica ciò che il Game designer deve evitare è che il giocatore si annoi o sia eccessivamente in ansia e sono proprio questi gli stati emotivi limite all' interno dei quali si colloca lo stato del flow: n'è nella noia di una sfida troppo facile, né nell' ansia di una troppo al di sopra delle possibilità, ma tra le due, nell' autoefficacia. 

Ma questa continua ricerca di assorbimento nel compito, di esperienza ottimale avrá dei costi?

Il primo che viene in mente è la nostra incapacità a stare nella noia, nella frustrazione.

In particolare sembra esserci il terrore di stare in queste emozioni, soprattutto da parte degli adolescenti e giovani adulti. D'altronde la tecnologia viene spesso utilizzata per non sperimentarle: appena ci troviamo in un momento di attesa o vuoto abbiamo subito la necessità di riempirlo prendendo in mano il cellulare e dedicandoci allo scrolling. Ma queste emozioni avranno pure una loro utilità..

E se questo assorbimento diventasse uno dei pochi modi per costringerci ad agganciare la nostra attenzione? 

D'altronde noia e frustrazione sono emozioni importanti da sapere gestire: nella noia facciamo spazio ai nostri pensieri, diamo modo alla nostra creatività di far emergere stimoli. La frustrazione non è mai evitabile e in essa mettiamo in gioco le nostre capacità di problem solving. Nell'attesa facciamo crescere il desiderio, motore della vita.

Nel film Soul è interessante come vengono rappresentati coloro i quali trasformano la propria scintilla in ossessione: diventano esseri scuri, angosciati e ripiegati su se stessi.

Forse la scintilla è importante, ma ciò che arricchisce davvero le nostre vite sono le relazioni. 

Il film questo ce lo mostra: nel rapporto tra il professor Gardner e 22 ciascuno di loro trova nella relazione con l'altro le risposte che sta cercando. Joe comprende che il significato della vita sta nelle piccole cose e 22 trova il coraggio di affrontare il suo senso di inadeguatezza che la fa essere spesso cinica e sfiduciata.

Le passioni, l'essere completamente assorbiti nelle proprie scintille può essere lo scopo della vita o lo scopo della vita è la vita stessa? Fatta di relazioni e di rapporto tra io e l' altro? 

Oppure, ancora, le proprie scintille hanno un senso se ci aprono al mondo e non se ci rinchiudono all'altro?

Quante domande e quanti significati in un film che sicuramente non è "solo un film per bambini". O forse questa è la sua forza.


Per saperne di più: https://www.stateofmind.it/2015/11/flow-experience-prestazione-perfetilil 






















domenica 3 gennaio 2021

LA GENTILEZZA: UNA TENDENZA FUORI MODA?


 Qualche sera fa la televisione ha proposto la visione di Cenerentola, il celeberrimo film Disney, nella sua versione non animata rivista e riadattata del 2015.

Il film ripercorre in modo abbastanza fedele la trama originale del cartone del 1950 con qualche interessante riadattamento. 

Cenerentola è un grandissimo classico. Nel riguardare la versione originaria oggi possono stridere alcuni aspetti che nell'epoca del politically correct possono far storcere un po' il naso: la fanciulla servile la cui unica via d'uscita da una situazione di sottomissione è l'incontro con un principe che la salverà ( e che la conquisterà solo con un misero ballo).

Potremmo riflettere su quanto Cenerentola può aver condizionato la psiche delle giovani fanciulle di varie epoche nell'aver fatto credere loro che dovesse arrivare un principe azzurro per emanciparsi ed avere successo nella vita, ma non è questa la parte che ci interessa in questo caso.

La parte su cui vorrei portare l'attenzione è come il riadattamento del film sia riuscito a produrre un elogio alla gentilezza senza che questa venga rappresentata come debolezza e come questa caratteristica, oggi in via d'estinzione, meriti di essere protetta come l'orso polare.

SII GENTILE E ABBI CORAGGIO, è la frase che viene più volte ripetuta e alla quale Cenerentola si ispira, eredità della madre.

Gentilezza e coraggio sono le doti che le consentiranno di non tradire mai se stessa, neanche davanti alle angherie della matrigna, interpretata da una bravissima Cate Blanchett, di cui vengono esplicitate le motivazioni alla base, passioni fondamentalmente umane: invidia, sofferenza per un lutto non elaborato.

Il momento più significativo del film  è lo sguardo finale  (vedi foto) che Cenerentola dedica alla matrigna prima di dirle che l'aveva perdonata. Uno sguardo fiero, liberatorio, forse un po' sfidante, lo sguardo di chi sa andare oltre con gentilezza e coraggio.

Forse proprio oggi abbiamo bisogno di tornare alla gentilezza. Ma cos'è questo nobile sentimento così poco contemporaneo?

Dal vocabolario Treccani si legge:" Amabilità, garbo, cortesia nel trattare con altri ". La gentilezza ha a che fare più con il modo in cui si fa qualcosa che su ciò che si fa o si dice, è accoglienza e attenzione all'altro, è rifiuto di prepotenza, violenza, sopruso. 

La gentilezza che ci interessa non è quella formale, di facciata, di chi si sa muovere con modi suadenti per "etichetta" o per raggiungere il proprio scopo, ma quella autentica che viene dall'animo.

Da dove arriva la gentilezza e perchè è così poco esercitata?

La gentilezza dal punto di vista psicologico può essere legata a tutto l'insieme delle abilità prosociali che vanno sotto la grande etichetta di EMPATIA. I bambini fin da piccoli, a partire dai due anni, sono capaci di atti di gentilezza: consolano spontaneamente i bambini che piangono, offrono cibo o giocattoli a chi è triste e con il linguaggio imparano i rituali sociali del "grazie" e "per favore". I bambini oscillano tra questi comportamenti e altri assolutamente egocentrati perchè il loro cervello è ancora immaturo e deve ancora sviluppare un equilibrio tra l'idea di sè, quella dell'altro e della relazione tra i due. L'empatia quindi è in parte innata, ma ha anche bisogno di essere esercitata e sperimentata.

Ecco perchè, sebbene sia  importante che i genitori insegnino la gentilezza, è ancora più importante che essi siano esempi di gentilezza. Sarà capitato a molti di noi di "dare lezioni di gentilezza" in modo non proprio gentile. Difficilmente quando "diamo lezioni" siamo modelli incisivi e ancora meno facilmente saremo credibili se c'è discrepanza tra il contenuto che vogliamo esprimere e la forma con cui lo stiamo esprimendo.

Ma andiamo oltre, nel contesto sociale in cui siamo inseriti non troviamo molti esempi di gentilezza. Se pensiamo al tono delle discussioni sui social, all'aumentato livello di violenza per discussioni banali ad esempio in auto o tra sconosciuti per strada o in fila alla posta... Di gentilezza sembra essercene rimasta ben poca...

La nostra società così competitiva e orientata all'individualismo può spingere a credere che chi è gentile con il prossimo verrà schiacciato dalla legge del più forte. Alcuni messaggi che abbiamo introiettato potrebbero contenere impostazioni di questo tipo: "Là fuori è una giungla, se non alzi la cresta ti mangeranno" "Fagli vedere chi comanda"..

In realtà la gentilezza potrebbe essere un buon antidoto al tasso di violenza che ci invade e ci attraversa. 

La gentilezza da coltivare non è solo verso gli altri, ma in primo luogo verso se stessi. Dobbiamo prestare attenzione alle cose che diciamo a noi stessi, troppo spesso non siamo accoglienti con le nostre emozioni, siamo giudicanti ed eccessivamente critici e tutto questo chiacchiericcio negativo intralcia il raggiungimento dei nostri obiettivi. Chi ha una bassa autostima ha un dialogo interno ipercritico e "violento"  e gli approcci terapeutici odierni convergono verso l'importanza dell'accoglienza e accettazione di sè attraverso l'esercizio attivo di quell'atteggiamento che potremmo chiamare  di GENTILEZZA E COMPASSIONE.

Spesso nelle consulenze con i genitori capita di parlare di come aiutare i bambini nella costruzione della loro autostima e spesso si discute del dialogo interno e di quanto si è gentili con se stessi. La prima cosa su cui chiedo di riflettere è di porre attenzione a come i genitori trattano se stessi, i figli captano e fanno propri anche questi messaggi.

E' possibile fare qualcosa di pratico per coltivare gentilezza?

Il primo passo è accorgersi di essa e darle spazio e attenzione. Ricordo di aver lavorato con una classe delle scuole elementari con la quale avevamo costruito un braccialetto della gentilezza. Ciascun bambino ne aveva fatto uno suo e aveva il compito di cambiare polso al braccialetto ogni volta che compiva un'azione gentile (l'idea era stata presa dal testo di Elin Snel "Calmo e attento come una ranocchia"). Era stata una buona occasione per porre l'accento su questo aspetto e aveva dato modo di riflettere su come ci si sente a ricevere e offrire gesti gentili. Questi spostamenti di focus sono importanti in quanto a volte nella nostra azione educativa rischiamo di dare maggiormente risalto al negativo piuttosto che al positivo.

Il messaggio che va tenuto a mente è comunque sempre questo: LA GENTILEZZA  VA ESERCITATA E NON INSEGNATA. Quindi alleniamoci e saremo buoni allenatori