La condivisione emotiva è quel momento speciale che viviamo
fin dai primi istanti di vita quando ci troviamo davanti ad un volto che ha un
non so che di famigliare, di cui riconosciamo le tonalità emotive della voce,
il profumo e la forma, che sa comprenderci, rispecchiarci, farci sentire parte
di un tutto così pieno e rassicurante. Abbiamo parlato precedentemente di come
questi momenti, che gli studiosi hanno chiamato sintonizzazione, sono alla base
della capacità del bambino di riconoscere e gestire le proprie emozioni. È come
se l’essere parte di una diade desse al bambino la possibilità di riconoscersi
e conoscersi nella mente dell’altro, questo sentirsi sentito gli consentirà di
acquisire un senso di sé stabile e gli permetterà di gestire il se in rapporto
con il mondo utilizzando le emozioni come predisposizione all'azione più
adattiva.
Quando ci sentiamo tristi, soli o arrabbiati ciò di cui
abbiamo bisogno (ma che non sempre riusciamo a fare) è condividere ciò che
proviamo con l’altro. Non con un altro a caso, ma con un altro con cui abbiamo
una relazione, un altro di cui possiamo fidarci che non ci giudicherà ma che ci
farà sentire capiti (o sentiti proprio come dicevamo rispetto al bambino nel
rapporto con la madre).
Quando il nostro “altro” accoglierà la nostra emozione noi
ci sentiremo meglio, non tanto perché ci offrirà soluzioni ma perché avremo
stabilito un contatto vero autentico e profondo con lui, la nostra emozione
difficile avrà trovato spazio.
Il nostro rapporto con l’altro e con le nostre emozioni però
sta cambiando. Oggi abbiamo meno difficoltà a condividere le nostre
frustrazioni, angosce, rancori e rabbie sui social che con l” altro vero”. O
meglio l’altro a cui oggi ci affidiamo rischia di essere un altro depersonalizzato,
virtuale, da noi creato, invisibile. Il contatto vero quello che non può
prescindere da uno sguardo che si incrocia con quello dell’altro, da un’espressione
del viso che rispecchiamo è diventato difficile, inusuale.
Questo contatto implica la ricerca di intimità: la
possibilità di fare spazio dentro di sé per accogliere l’altro, per fargli
conoscere le parti più autentiche e fragili di noi stessi. Un contatto intimo
impegnativo quindi.
Quanto hanno a che fare le nostre emozioni con il concetto
di intimità?
Potremmo affermare che le nostre emozioni rivelano la parte
più intima di noi stessi, a chi affidiamo quindi la possibilità di entrare
nella nostra sfera più intima?
Questo concetto di intimità apre a diverse riflessioni. Chi
utilizza i social per condividere il proprio stato e le proprie vite potrebbe
obiettare che ciò che viene condiviso è solo ciò che egli sceglie di
condividere. In altre parole: “Esiste la vita vera fatta di relazioni vere e
poi ci sono i social in cui viene mostrata una parte della vita, quella che si
sceglie di mostrare”. Questo è condivisibile, appunto, ma è indubbio che questo
eccesso di condivisione privato della parte relazionale e intima di cui parlavo
può portare a privare la condivisione emotiva della sua parte più ricca.
Forse potremmo categorizzare due situazioni nelle quali la
condivisione via social porta ad un sicuro impoverimento della nostra vita emotiva:
1) Quando è ossessivamente orientata all’apparire e
all’ostentare.
2) Quando è orientata a cercare un pubblico che assista
ai nostri più oscuri impulsi distruttivi.
Nel primo caso ci troviamo di fronte alla condivisione di
ciascun momento che porti a fornire una versione migliore di noi stessi e della
nostra vita. In queste situazioni l’apparire è al primo posto. Perché abbiamo
bisogno di tutto ciò? Le risposte possono essere tante: abbiamo bisogno di rafforzare
la nostra scarsa autostima; avendo un senso di noi stessi fragile contro il
quale combattiamo abbiamo sempre bisogno di esempi che ci diano la prova contraria,
ovvero che siamo belli, forti, felici e con molte relazioni.
Quest’ultima riflessione porta a considerare un interessante
aspetto dei nostri tempi, le cosiddette depressioni sorridenti (un approfondimento qui). Vale a dire quelle situazioni in cui la depressione viene mascherata da
una facciata di benessere e normalità. Forse anche la felicità è uno status che
va raggiunto (o mostrato) ad ogni costo. La fragilità, la dimensione
profondamente umana, non è consentita.
Ci sono poi momenti, situazioni, emozioni che spesso vediamo
mostrati sui social che forse non possono essere condivisi perché hanno
significato in una dimensione intima e relazionale autentica. Questa dimensione
sui social può scomparire e questi momenti, questi attimi possono essere dati in
pasto ad una modalità bulimica del fruire delle emozioni.
Nel secondo caso, invece, assistiamo ai cosiddetti “sfoghi
social” quelli di cui a volte ci pentiamo e rimuoviamo, ma si sa non è
possibile cancellare davvero nulla dalla rete. In questo caso diamo libero
sfogo al nostro rimuginìo distruttivo, non abbiamo e non troviamo vera
condivisione ma urliamo la nostra rabbia da una finestra virtuale. Svuotiamo il
cestino dei rifiuti, ma non troviamo ciò che staremmo cercando. Avremmo bisogno
di un altro che accoglie e invece cerchiamo un pubblico virtuale che assiste
alla nostra esibizione tossica.
Eppure si tratta delle nostre emozioni, quelle che hanno a
che fare con la parte più intima e autentica di noi… Conserviamole e cerchiamo di averne cura, consegniamole a chi saprà accoglierle, a chi ne avrà rispetto. Solo nella
relazione (quella vera e autentica) ritroveremo questa possibilità.
Nessun commento:
Posta un commento