domenica 1 dicembre 2019

Condividere o non condividere? Questo è il problema... Un’analisi del concetto di condivisione emotiva al nostro tempo


La condivisione emotiva è quel momento speciale che viviamo fin dai primi istanti di vita quando ci troviamo davanti ad un volto che ha un non so che di famigliare, di cui riconosciamo le tonalità emotive della voce, il profumo e la forma, che sa comprenderci, rispecchiarci, farci sentire parte di un tutto così pieno e rassicurante. Abbiamo parlato precedentemente di come questi momenti, che gli studiosi hanno chiamato sintonizzazione, sono alla base della capacità del bambino di riconoscere e gestire le proprie emozioni. È come se l’essere parte di una diade desse al bambino la possibilità di riconoscersi e conoscersi nella mente dell’altro, questo sentirsi sentito gli consentirà di acquisire un senso di sé stabile e gli permetterà di gestire il se in rapporto con il mondo utilizzando le emozioni come predisposizione all'azione più adattiva. 

La condivisione emotiva, tuttavia, non si arresta alla fine della prima infanzia ma continua nel corso dello sviluppo e per tutta la vita.
Quando ci sentiamo tristi, soli o arrabbiati ciò di cui abbiamo bisogno (ma che non sempre riusciamo a fare) è condividere ciò che proviamo con l’altro. Non con un altro a caso, ma con un altro con cui abbiamo una relazione, un altro di cui possiamo fidarci che non ci giudicherà ma che ci farà sentire capiti (o sentiti proprio come dicevamo rispetto al bambino nel rapporto con la madre).
Quando il nostro “altro” accoglierà la nostra emozione noi ci sentiremo meglio, non tanto perché ci offrirà soluzioni ma perché avremo stabilito un contatto vero autentico e profondo con lui, la nostra emozione difficile avrà trovato spazio.
Il nostro rapporto con l’altro e con le nostre emozioni però sta cambiando. Oggi abbiamo meno difficoltà a condividere le nostre frustrazioni, angosce, rancori e rabbie sui social che con l” altro vero”. O meglio l’altro a cui oggi ci affidiamo rischia di essere un altro depersonalizzato, virtuale, da noi creato, invisibile. Il contatto vero quello che non può prescindere da uno sguardo che si incrocia con quello dell’altro, da un’espressione del viso che rispecchiamo è diventato difficile, inusuale.
Questo contatto implica la ricerca di intimità: la possibilità di fare spazio dentro di sé per accogliere l’altro, per fargli conoscere le parti più autentiche e fragili di noi stessi. Un contatto intimo impegnativo quindi.

Quanto hanno a che fare le nostre emozioni con il concetto di intimità?

Potremmo affermare che le nostre emozioni rivelano la parte più intima di noi stessi, a chi affidiamo quindi la possibilità di entrare nella nostra sfera più intima?
Questo concetto di intimità apre a diverse riflessioni. Chi utilizza i social per condividere il proprio stato e le proprie vite potrebbe obiettare che ciò che viene condiviso è solo ciò che egli sceglie di condividere. In altre parole: “Esiste la vita vera fatta di relazioni vere e poi ci sono i social in cui viene mostrata una parte della vita, quella che si sceglie di mostrare”. Questo è condivisibile, appunto, ma è indubbio che questo eccesso di condivisione privato della parte relazionale e intima di cui parlavo può portare a privare la condivisione emotiva della sua parte più ricca.

Forse potremmo categorizzare due situazioni nelle quali la condivisione via social porta ad un sicuro impoverimento della nostra vita emotiva:
1)     Quando è ossessivamente orientata all’apparire e all’ostentare.
2)    Quando è orientata a cercare un pubblico che assista ai nostri più oscuri impulsi distruttivi.

Nel primo caso ci troviamo di fronte alla condivisione di ciascun momento che porti a fornire una versione migliore di noi stessi e della nostra vita. In queste situazioni l’apparire è al primo posto. Perché abbiamo bisogno di tutto ciò? Le risposte possono essere tante: abbiamo bisogno di rafforzare la nostra scarsa autostima; avendo un senso di noi stessi fragile contro il quale combattiamo abbiamo sempre bisogno di esempi che ci diano la prova contraria, ovvero che siamo belli, forti, felici e con molte relazioni.

Quest’ultima riflessione porta a considerare un interessante aspetto dei nostri tempi, le cosiddette depressioni sorridenti (un approfondimento qui). Vale a dire quelle situazioni in cui la depressione viene mascherata da una facciata di benessere e normalità. Forse anche la felicità è uno status che va raggiunto (o mostrato) ad ogni costo. La fragilità, la dimensione profondamente umana, non è consentita.
Ci sono poi momenti, situazioni, emozioni che spesso vediamo mostrati sui social che forse non possono essere condivisi perché hanno significato in una dimensione intima e relazionale autentica. Questa dimensione sui social può scomparire e questi momenti, questi attimi possono essere dati in pasto ad una modalità bulimica del fruire delle emozioni.

Nel secondo caso, invece, assistiamo ai cosiddetti “sfoghi social” quelli di cui a volte ci pentiamo e rimuoviamo, ma si sa non è possibile cancellare davvero nulla dalla rete. In questo caso diamo libero sfogo al nostro rimuginìo distruttivo, non abbiamo e non troviamo vera condivisione ma urliamo la nostra rabbia da una finestra virtuale. Svuotiamo il cestino dei rifiuti, ma non troviamo ciò che staremmo cercando. Avremmo bisogno di un altro che accoglie e invece cerchiamo un pubblico virtuale che assiste alla nostra esibizione tossica.

Eppure si tratta delle nostre emozioni, quelle che hanno a che fare con la parte più intima e autentica di noi… Conserviamole e cerchiamo di averne cura, consegniamole a chi saprà accoglierle, a chi ne avrà rispetto. Solo nella relazione (quella vera e autentica) ritroveremo questa possibilità.

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